Sempre più spesso si sente parlare di apartheid con riferimento alle politiche attuate dallo Stato d’Israele nei confronti del popolo palestinese. Sebbene originariamente associato al caso specifico del Sudafrica, il termine “apartheid” costituisce una fattispecie di crimine contro l’umanità ai sensi del diritto internazionale consuetudinario e dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, e come tale ha portata universale. Fino a che punto l’utilizzo del termine “apartheid” con riferimento allo Stato d’Israele corrisponde a realtà e in che termini può costituire la base di una nuova narrazione della questione israelo-palestinese? Quali gli strumenti per contrastarla e porvi fine? Partendo dalle stesse leggi e principi universali che respingono l’antisemitismo – tra cui la Carta delle Nazioni Unite (1945), la Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) e la Convenzione internazionale sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (1965) – il presente rapporto dimostra, oltre ogni ragionevole dubbio, che Israele è colpevole di aver stabilito un regime di apartheid così come definito dagli strumenti di diritto internazionale. Le guerre, le annessioni de jure e de facto e l’occupazione prolungata hanno frammentato il popolo palestinese in più regioni geografiche amministrate da una serie di corpus di leggi tra loro distinti, che il rapporto definisce “regimi giuridici” (“domains”), nei quali i palestinesi sono trattati diversamente, condividendo però l'oppressione razziale che deriva dal regime di apartheid. Tale frammentazione opera al fine di rendere stabile il dominio razziale sui palestinesi da parte del regime israeliano e di minare la volontà e la capacità del popolo palestinese di organizzare una resistenza unitaria ed efficace.
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